Istologia

Fasi di allestimento di un campione (prelievo, fissazione, inclusione, colorazione)

L’allestimento di preparati microscopici implica una serie di operazioni che consistono in:
Prelievo di frammenti d’organo.
Fissazione.
Inclusione.
Colorazione.

Il prelievo di frammenti d’organo va condotto al più presto sul materiale fresco. Se, in teoria, i metodi di osservazione delle cellule allo stato vitale sarebbero da preferirsi in quanto consentono uno studio dinamico della cellula, in assenza di artefatti di immagine prodotti dalle fasi successive di allestimento del campione, in realtà il loro impiego è limitato perché le cellule ed i tessuti isolati dall’organismo non sopravvivono che per tempi brevi (a meno che non siano coltivati in vitro) in quanto gli enzimi litici intracellulari si attivano rapidamente e distruggono la cellula (autolisi) provocando gravi alterazioni di struttura.
In secondo luogo, frammenti spessi di tessuto non permettono un’analisi citologica fine e quindi diventa necessario lavorare con tessuti uccisi chimicamente, prima che intervengano gli enzimi autolitici, e tagliarli in sezioni sottili che possano essere osservate al microscopio, eventualmente previa colorazione.

La fissazione consiste nel trattamento del fram­mento d’organo con procedimenti chimici o fisici capaci di preservare e stabilizzare i costituenti dei tessuti, inattivando nel contempo gli enzimi autolitici. La fissazione di organi interi non è in genere buona norma, in quanto, a parte l’impossibilità di alcune situazioni, la penetrazione lenta del liquido ha l’inconveniente di permettere l’autolisi delle parti che tardivamente vengono a contatto col fissativo.
La fissazione dura da pochi minuti fino a 24-48 ore a seconda della grandezza del frammento. Il rapporto fissativo/campione deve essere di 20:1. Ogni fissativo all’atto di provvedere alla stabilizzazione delle strutture provoca degli artefatti di struttura, ossia immagini inesistenti prima della fissazione. Ciò comporta che il metodo venga di volta in volta scelto opportunamente in rapporto al tipo di strutture che si desiderano studiare e, di conseguenza, alla colorazione da adottare. Nella scelta di un fissativo va anche tenuto presente che esso non deve svolgere azione estrattiva sui compo­nenti che si desiderano identificare. Così, ad esempio, i fissativi in soluzione acquosa sono controindicati quando si debba studiare la distribuzione del glicogeno, in quanto tale sostanza è solubile in acqua. In questa evenienza è indispensabile l’uso dell’alcool etilico asso­luto che precipita il glicogeno.
I fissativi mag­giormente usati sono la formaldeide (o formalina) al 10% e l’alcool etilico a 90°. Soprattutto la prima viene particolarmente raccomandata in quanto consente la realizzazione dei più comuni metodi di colorazione per uso diagnostico. È maggiormente usata la formalina tamponata per evitare variazioni di pH che possano alterare le proprietà antigeniche di alcuni antigeni.
L’aldeide formica ha un forte odore e per evitare danni all’apparato respiratorio conseguenti alla sua inalazione, si devono usare cappe o almeno tenere aperte le finestre. È cancerogena per le vie respiratorie e teratogena, cioè danneggia il feto nel 1° trimestre di gravidanza.
Non bisogna mai usare la soluzione fisiologica in quanto l’acqua entrerebbe nelle cellule per osmosi facendole scoppiare.
Altri fissativi sono: gluteraldeide, cloruro di mercurio, acido picrico.
I migliori fissativi sono quelli che determinano una precipitazione dei componenti cellulari in minutissimi granuli. I fissativi contenenti acidi (come l’acido picrico) sono molto penetranti e molto rapidi, ma determinano l’addensamento della struttura nucleare.
Bisogna considerare che nel caso si vogliano effettuare studi immunoistochimici, la formalina richiede successive tecniche di smascheramento antigenico in quanto questo fissativo crea ponti metilenici con le proteine alterandone la struttura.
La formaldeide non permette di scendere all’individuazione di fini dettagli citologici, dato che le cellule vanno incontro a raggrinzamenti e retra­zioni. Ne consegue che per indagini analitiche si consi­gliano altri fissativi o, meglio, miscele di fissativi. Alcuni fissativi fungono anche da coloranti come nel caso dell’acido osmico, usato per la dimostrazione dei lipidi.
Una tecnica di fissazione molto utilizzata è il congelamento-essiccamento: si ricopre il materiale da fissare con una resina e lo si espone a vapori di azoto liquido alla temperatura di -170 – -190 °C, completando l’operazione a -30 – -40 °C. Questa tecnica ha il vantaggio di una rapida fissazione e non necessita di una successiva fase di smascheramento antigenico se si vogliono usare tecniche immunoistochimiche.
Per fissare il tessuto, infine, spesso si usano miscele di varie sostanze; le più note sono: miscela di Bouin, di Zenker, di Susa, di Carnoy e di Orth.

L’inclusione consiste nel lasciar permeare il tessuto da una sostanza che solidifica a temperatura ambiente atta a consentire il taglio in sezioni sottili dello spessore di pochi micron. Essa è correntemente rappresentata dalla paraffina. Trattandosi di una sostanza idrofoba, la sua penetrazione richiede che dal tessuto venga allontanata l’acqua a mezzo di un disidratante. Si usa all’uopo una serie di soluzioni di alcool etilico a gradazione crescente fino a portare il pezzo in alcool assoluto. Da qui il tessuto viene trasferito in un solvente della paraffina che di solito è lo xilolo. Esso ha la funzione di consentire la penetrazione del mezzo includente. La paraffina, il cui punto di fusione varia tra 52 e 60 °C, è usata allo stato liquido, quindi l’operazione viene praticata in termostato. Una volta che la compenetrazione è avvenuta, il pezzo viene rapidamente raffreddato, così da acquistare la consi­stenza della paraffina solida.
Del tessuto incluso si ottengono fette di 3-10 µm, usando un microtomo a lama d’acciaio. Data la sotti­gliezza, queste risultano difficilmente maneggevoli, quindi vengono montate su un vetrino portaoggetto. Per provvedere alla loro colorazione si suole allontanare la paraffina e riportare il tessuto al suo primitivo stato d’idratazione. Così le sezioni vengono dapprima immerse in xilolo, quindi in una serie di soluzioni di alcool a gradazione decrescente fino all’acqua. A questo punto si può procedere alla colora­zione e al montaggio, ossia all’applicazione di un vetrino coprioggetto che viene fatto aderire al primo mediante una resina naturale o sintetica.
Un’inclusione in un materiale più duro può essere ottenuta utilizzando plastiche quali resina epossidica. L’infiltrazione del frammento da includere viene fatta con plastica allo stato momomerico nel quale essa è fluida; viene quindi indotta la solidificazione del frammento infiltrato facendo polimerizzare la plastica mediante calore o raggi ultravioletti. Trattandosi di un materiale di inclusione molto duro, la plastica consente di ottenere sezioni sottili dello spessore di poche centinaia di nanometri che possono essere osservate al microscopio elettronico.
Nel caso di organi i cui componenti abbiano consi­stenza disomogenea, come il nevrasse e l’osso, si preferi­sce l’inclusione in celloidina o in resina. Solo nel caso di tessuti calcificati all’inclusione viene fatta precedere la decalcificazione, per la quale si ricorre all’uso di acidi diluiti ovvero di chelanti, come l’acido tetracetico dell’etilendiamina (EDTA).
Vi sono poi eventualità nelle quali non è possibile l’uso dell’inclusione, per esempio quella in cui si vogliano studiare i grassi neutri, i quali sono solubili in alcool ed in xilolo. Si ricorre in tal caso all’uso del microtomo congelatore. Con questo strumento si confe­risce al pezzo la durezza necessaria per essere sezionato a mezzo del congelamento estemporaneo con neve carbonica.
Trova anche largo impiego il criostato che consta di una camera termicamente isolata entro la quale è collocato il microtomo. La temperatura della camera è mantenuta tra i -15 ed i -30 °C.

La colorazione viene praticata principalmente per mettere in risalto singoli componenti strutturali. In altri casi viene eseguita al fine di identificare costituenti chimici particolari del tessuto.
Se il tessuto da esaminare consiste in un monostrato di cellule (per esempio cellule coltivate in vitro, preparati per striscio di sangue circolante o preparati per schiacciamento), esso viene di solito osservato direttamente al microscopio. Negli altri casi, invece, si procede con la colorazione.
I coloranti sono di due tipi: naturali e sintetici. I primi possono essere di origine tanto animale che vegetale. I secondi, prodotti in laboratorio, sono derivati dall’anilina.
I coloranti, ancora, si distinguono in vitali e sopravitali.

  • I coloranti vitali hanno la proprietà di essere assunti attivamente da alcune cellule viventi permettendo così la loro identificazione o lo studio di funzioni particolari. Esempi di coloranti vitali sono:
    • Alizarina, incorporata elettivamente nella sostanza fondamentale dell’osso in corso di calcificazione, colorandola di rosso.
    • Blu Triptan, litio carminio, blu pirrolo, che sono fagocitati dai macrofagi permettendo così la loro individuazione.
    • Verde Janus, che colora elettivamente i mitocondri in virtù delle proprietà ossido-riduttive di questi organuli.
    • Rosso neutro, che colora i granuli specifici dei leucociti (in rosa quelli dei granulociti neutrofili, in giallo quelli degli eosinofili e in rosso mattone quelli dei basofili).
    • Blu di metilene, che colora l’assone dei neuroni.
  • I coloranti sopravitali, invece, sono somministrati a cellule o a tessuti isolati dall’organismo.

I coloranti si legano ai tessuti mediante legami chimici con le proteine, gli acidi nucleici, le glicoproteine e le lipoproteine. Da un punto di vista chimico, quindi, i coloranti sono classificati in due categorie: coloranti acidi, nei quali il gruppo cromoforo è acido (anionico) e coloranti basici, nei quali il gruppo cromoforo è basico (cationico).

  • I coloranti acidi più comuni sono: eosina, arancio G, verde luce.
  • I coloranti basici più comuni sono: blu di metilene, blu di toluidina, tionina, verde di metile, pironina, azzurro B, fucisina basica.

I componenti dei tessuti che hanno affinità per i coloranti acidi sono detti acidofili; quelli che mostrano affinità per i coloranti basici sono detti basofili. Bisogna considerare, però, che l’acidofilia e la basofilia dei vari costituenti cellulari dipendono dal pH della soluzione colorante. Ai valori di pH comunemente impiegati per una determinata colorazione istologica (pH = 6), la cromatina del nucleo, l’ergastoplasma, le mucoproteine e i glicosaminoglicani assumono i coloranti basici, mentre gli eritrociti, i granuli dei granulociti eosinofili ed alcune parti del citoplasma legano coloranti acidi.
I coloranti sono di regola indiretti in quanto la loro fissazione al tessuto necessita l’impiego di mordenzatori, ossia degli ossidanti (acido fosfomolibdico, acido picrico, acido fosfowolframico, acido cromico, permanganato di potassio, ecc.) che fungono da mezzo intermediario di collegamento tra struttura tissutale e colorante, fra i quali non esiste una particolare affinità.

I metodi di colorazione prevedono spesso l’uso di più coloranti, ciascuno capace di mettere in evidenza un particolare componente strutturale. In tal senso i singoli coloranti possono essere applicati successivamente ovvero contemporaneamente sotto forma di miscele bilanciate.

Articolo creato l’8 marzo 2010.
Ultimo aggiornamento: vedi sotto il titolo.