Attualità,  GVM

Coronarie e valvola aortica compromesse: intervento combo salvavita messo a punto dall’Heart Team di Ospedale Santa Maria di Bari

La procedura, che “reinventa” il trattamento delle lesioni calcifiche e di sostituzione della valvola aortica, è stata pubblicata sull’European Heart Journal

Un innovativo approccio interventistico è stato studiato e messo in campo per trattare due casi estremamente complessi nell’ambito della Cardiologia Interventistica.

Presso l’Ospedale Santa Maria di Bari, Ospedale di GVM Care & Research, è stata ideata una combinazione di metodiche che ha permesso di trattare due pazienti, uomini di 78 e 79 anni, che presentavano una stenosi aortica severa (restringimento del giunto aortico) e una grave malattia coronarica del tronco comune e dei principali vasi prossimali severamente stenotici e gravemente calcifici. Il rischio “operatorio” della TAVI –intervento mininvasivo di sostituzione della valvola aortica– era elevato: andavano quindi risolte le problematiche concomitanti prima di procedere con la sostituzione della valvola.

L’innovativa combinazione di procedure è stata oggetto di un’importante pubblicazione sulla rivista della Società Europea di Cardiologia European Heart Journal.

Il dott. Alfredo Marchese, a guida dell’équipe di Emodinamica e Cardiologia Interventistica dell’Ospedale Santa Maria, intervenuta su questi quadri clinici, coronarico e ventricolare, particolarmente complessi, commenta:

L’intervento preliminare per trattare le stenosi coronariche calcifiche era necessario per poter procedere in sicurezza con l’operazione sulla valvola aortica. Questo perché qualsiasi complicazione durante la sostituzione della valvola sarebbe stata ancora più grave in presenza di coronarie stenotiche non trattate. Tuttavia, l’uso di palloni ad alte pressioni o di sistemi tradizionali di ablazione della placca calcifica (Rotablator) avrebbero aumentato il rischio di complicanze coronariche anche fatali. Di qui l’uso della metodica di Shockwave per rompere in modo controllato la placca calcifica coronarica con ultrasuoni. L’intervento diviene però ancor più complesso se, a questo quadro coronarico, si associa anche una grave compromissione della funzione ventricolare (del ventricolo sinistro o talvolta biventricolare). Dovevamo trovare dunque l’iter terapeutico ottimale che portasse ad un beneficio concreto per intervenire su pazienti fragili e ad alto rischio procedurale.

L’approccio multidisciplinare dell’Heart Team ha combinato procedure e tecnologie già impiegate ma mai in maniera congiunta finora:

  1. il sistema di circolazione extracorporea ECMO per assicurare la stabilità emodinamica in combinazione con un contropulsatore intra-aortico (IABP) per supportare la funzione ventricolare riducendo di fatto il carico di lavoro del cuore e sollevandolo dall’affaticamento provocato dalle procedure coronariche;
  2. la litotrissia intracoronarica per risolvere le calcificazioni, sfruttando le onde d’urto, permette di intervenire sulla calcificazione con fratture controllate, minimizzando la distruzione della placca e il rischio di embolizzazione distale (occlusione di vasi sanguigni periferici) e dunque di ischemia massiva e grave insufficienza ventricolare sinistra;
  3. procedura di sostituzione della valvola aortica tramite TAVI, con un approccio mininvasivo, senza sternotomia, con benefici per il paziente nel post operatorio che vede una ripresa più rapida rispetto alla chirurgia tradizionale.

L’approccio mininvasivo utilizzato, le procedure di cardiologia interventistica e il coinvolgimento dell’Heart Team, non solo in fase decisionale ma anche all’atto pratico, ci hanno permesso di portare a termine interventi molto complessi su pazienti spesso molto anziani con comorbidità – commenta il dott. Marchese –. Come nei due casi descritti, considerati ad altissimo rischio cardiochirurgico. Assistiamo così oggigiorno ad una riduzione del rischio operatorio per quei pazienti complessi che spesso hanno complicanze o lungodegenze e abbiamo l’opportunità di trattare anziani con comorbidità che altrimenti non sarebbero operabili.

A distanza di oltre 8 mesi dagli interventi i pazienti stanno bene e continuano a sottoporsi ai regolari follow up previsti.

Dott. Marchese